L’Alfieri e il romanticismo (1941)

«Il Maestrale», a. II, n. 4-5, Roma, aprile-maggio 1941, pp. 113-120.

L’ALFIERI E IL ROMANTICISMO

Nella grande epoca romantica alcuni problemi fondamentali per l’uomo si prospettano con rinnovata violenza, con un’urgenza non sempre ugualmente rigorosa, con un bisogno di soluzione integrale e senza compromesso che sembra nuova nella storia della cultura. Tutto deve attuarsi qui, nella vita, subito, anche il morire diviene un atto vitale di lotta fuori della saggezza stoicheggiante di altri climi, anche le relazioni con gli altri si fanno violente, esclusive, capaci di assumere un valore creativo che prima era riserbato, attraverso un sapiente platonismo, all’amore per Dio. E al fondo di ogni anima romantica vive il bisogno di trovare la chiave che schiude i mondi della perfezione e della felicità non piú precisati in un al di là, ma richiesti in valori sublimi, divini, ma immediati, immanenti alla vita. Negli spiriti piú meditativi e complessi quella prima aspirazione trovava un rifugio nel sogno, nell’idillio concluso e malinconico (donde tutta quella nobile e sospirosa mestizia che dal Leopardi passò anche nella spiritualità piú diffusa del tempo), nelle nature piú impulsive, irrequiete e frementi diventa scatto ad agire, a rovesciare d’un colpo totalmente la situazione personale e universale, a combattere una lotta magari donchisciottesca contro tutto ciò che siede tranquillo e indifferente od ostile a quella voce divina che ci sprona e tormenta.

L’Alfieri è nato alla vita spirituale con la dichiarazione di un furore che si cerca un avversario dopo aver provato che ogni soddisfazione, ogni pacificazione nelle cose della vita non può dare nessuna sorta di felicità. Ha risolto di toccare l’infinito non nella meditazione o nel sogno, ma nella rivolta. Questa parola, rivolta, assume il suo spirito nuovo con il romanticismo, con l’inizio della religiosità romantica. Né si capirebbe la svolta decisiva della cultura che ancora ci condiziona, sia pure per reazioni e svolgimenti e approfondimenti, senza chiarire l’importanza che una diffusa nuova spiritualità ebbe per tutto il romanticismo. Ad una concezione trascendente di un mondo retto ed inteso nei suoi bisogni dalla divinità l’ottimismo del settecento aveva aggiunto una sicurezza mondana, la sicurezza di un ordine e di una provvidenzialità indiscutibile cui l’uomo partecipava lietamente. Se razionalismo ed empirismo per vie opposte avevano fondato il regno dell’uomo e le possibilità di una vita controllata da forze umane, avevano anche diffuso un senso di tranquillità, di sufficienza cui non sfuggivano neanche le satire di Candide e che tanto piú diventava il colorito dell’epoca.

Un certo praticismo, una soddisfazione nelle riforme che in ogni campo sembravano avvicinare a quella perfetta socialità che avrebbe risolto per gli uomini ogni problema, ogni necessità. Non tanto per faciloneria, quanto per un entusiasmo che si era scordato della amarezza cristiana di Pascal, dei motivi tragici della nullità umana di fronte alla onnipotenza di Dio. Giobbe con la sua rassegnazione o con la sua ribellione non era certo il mito del secolo, l’esperienza del dolore veniva sottintesa e travolta dall’edonismo del nuovo fare, del nuovo costruire, del nuovo scoprire.

Sono alcune personalità che alla fine del secolo portano il peso della sazietà e di problemi e di particolari minutamente resi capaci di dare scopo a tutta una vita, nascono con un bisogno di assoluto, di felicità assoluta, cui le singole attività specializzate non danno risposta. La vita viene rapidamente esaurita nelle sue possibilità e le cose resistono opache al loro bisogno di affetti smisurati, di comprensione, di consonanza, la stessa natura, amata come persona infinita e sorgente di sentimenti, di presentimenti della perfezione, rivela un volto marmoreo, una indifferenza all’anima che invano ha tentato di avvivarla, di renderla partecipe alle proprie venture. Mai gli uomini si erano accorti cosí dolorosamente che le cose impongono alla loro capacità una barriera senza varchi, che alle pene dell’uomo le cose restano impassibili, crudeli. Nel 1774 Goethe scriveva il Prometeo, una lirica che rappresenta l’inizio chiaro di questa rivolta romantica contro le cose e il dio della natura che assiste neronianamente alle vicende tristi dei mortali da lui stesso iniziate e volute. Prometeo ha ingenuamente da giovane slanciato il suo puro entusiasmo verso il sole credendo che là ci fosse un orecchio per ascoltare i suo i lamenti, un cuore come il suo per avere compassione dell’afflitto. Ha trovato gli dèi sordi e si è staccato sprezzante da loro.

Il senso del limite rapidamente attinto, data la forza effettiva di cui i romantici traboccano, porta piú o meno coscientemente alla bestemmia, alla rivolta contro un potere arcano ingiusto, disumano. Lentamente sviluppato per serie di esperienze sentimentali e di intuizioni, questo spirito di religiosità negativa e ribelle, che costituisce del resto il primo punto solido di ogni religione che separi la responsabilità delle cose dalla bontà di Dio, che liberi Dio da ogni subdola giustificazione del male che c’è nel mondo e negli uomini, acquista una precisione, una possibilità di rappresentarsi che culmina soprattutto nel Leopardi, nel suo pessimismo che stabiliva per noi il massimo approfondimento dell’inchiesta viva sul dolore e sull’ostilità delle cose e quindi sulla incommensurabilità dell’anima e delle cose, dell’infinito spirituale e di ogni infinito spaziale e temporale. Ma il Leopardi aveva bruciato sulla sua esperienza romantica tutto il pensiero del settecento e rappresentava il risultato piú puro e duraturo di questo tormento di spiritualità in formazione.

In altre anime, meno dolorosamente meditative e profonde di quella leopardiana, la rivolta si era fatta furore e affermazione di una lotta titanica contro la potenza materiale delle cose. Senza arrivare alla certezza della ginestra che si erge fiera e consapevole della sua debolezza, lontana da enfasi, ma pronta a costruire sul dolore, sul limite, altri poeti sentono che l’anima umana non soccombe e oppone, secondo le parole di De Vigny, il disprezzo e il silenzio alla crudeltà della divinità. Si può dire che nel suo svolgersi il Romanticismo ha approfondito questa prima scoperta spirituale fino alla completa soluzione leopardiana, oltre lo stoicismo austero di De Vigny, mentre al suo inizio piú chiaro è il carattere di rivolta, di esaltazione per la propria liberazione dalla volontà tirannica celeste. E perciò si può ancora avvicinare il mito di Prometeo al mito leopardiano della ginestra, o il mito di Caino del Byron al mito del Gesú nell’orto di Getsemani di De Vigny, per indicare l’approfondimento che di quella prima intuizione si è fatto durante il periodo romantico.

Ora è alla luce di questo moto che l’Alfieri acquista piú chiaramente una importanza storica, un significato di annunziatore quasi inconsapevole di una spiritualità che si pose problemi da lui solamente intuiti. È la sua personalità che preannunzia quelle appassionate delusioni e quelle appassionate rivolte. È il suo piglio pregno, quasi torbido, pieno di presentimenti che lo pone ad aprire in Italia la passione romantica, affermando l’altezza dell’anima nella rivolta dell’individuo. Proprio per essere cosí indiscriminato, il suo slancio vitale ci indica la nascita di questo nuovo spirito, ci inserisce la sua affermazione di incondizionata resistenza alle cose, di vocazione, se anche non di possesso, a valori di una intensità infinita, in questa storia dello spirito romantico che sembra la premessa di ogni nostra serietà, di ogni nostra serenità.

L’Alfieri si trovava di fronte ad una cultura ancora inadatta a soddisfare un possibile sviluppo dei motivi romantici celati nella sua personalità. Egli veniva a trovarsi alla fine del periodo illuministico, durante il lento e complicato trapasso verso il romanticismo, che specialmente in Italia subí una specie di ritardo dovuto ad un iniziale sfasamento rispetto alla cultura europea settecentesca. Il «Caffè» ad esempio ci mostra tipico questo coesistere di un fervore illuministico e di esigenze nuove che non venivano a maturità ritardandosi nei motivi non ancora esauriti della cultura precedente. Nello stesso problema nazionale venivano a confluire la vecchia tradizione letteraria che scendeva dalla canzone del Petrarca all’Italia fino al Filicaia, la concezione funzionale ed europeistica dell’illuminismo, e nuovi germi di volontà distintiva concreta che saranno potentemente aiutati se non addirittura creati dalle nuove parole alfieriane.

In questo passaggio dall’illuminismo al romanticismo in Italia l’Alfieri ha un posto importantissimo, diventa una forza motrice in quanto suscita, oltre che l’entusiasmo nazionale, la sensibilità per un gusto non composto e addomesticato, per un apprezzamento dei valori piú elementari e sanguigni in contrapposizione con la socievolezza illuministica paurosa di quanto non fosse passato attraverso accademie e scienza geometrica e fisica. La polemica per l’illuminismo nasce in lui dalla valutazione dei sentimenti eccessivi che nel temperato equilibrio settecentesco sembravano stonati e patologici. Ogni periodo ha una sua idea della sanità e della pazzia, ma mai come con il romanticismo i termini fra i due aspetti umani rischieranno di frantumarsi del tutto. Ciò avverrà misticamente con Hamann, Novalis e gli estremisti magici tedeschi, ma già nell’Alfieri c’è una netta ribellione alla fredda assimilazione delle passioni piú sublimi alla pazzia, anche se la sua solida razionalità saprà rimettere le cose a posto prima di ogni ebbrezza mistica. «In questo secolo, in cui pur tanto si legge e si scrive, esaminiamo rapidamente quali siano coloro che leggono e quali scritti e in qual modo si leggano. Quale animo vediamo noi, infiammato da quei tanti generosi tratti di storia antica, dal segno di averne ricevuto una profonda impressione, col fare o dire, o tentare, o almeno caldissimamente lodare alcune di quelle imprese alte e memorabili, che dai moderni col freddo e vile vocabolo di pazzie vengono denominate?». Nell’Alfieri c’è una concreta aderenza al reale che se gli permette l’esaltazione dell’indiscriminata origine passionale di un gesto non lo lascia commuoversi per il suo sviluppo irresponsabile nella pratica. E ciò lo distingue e lo limita di fronte allo Sturm und Drang e alle tendenze piú volontaristiche e mistiche che egli ignora totalmente. Ma proprio c’è in lui, sia pure in funzione politica, una sfiducia suprema nei metodi educativi dell’illuminismo, dal compromesso del dispotismo illuminato in giú. «Crederei che i lumi moltiplicati e sparpagliati fra i molti uomini, li facciano assai piú parlare, molto sentire, e niente affatto operare».

È chiaro quanto d’esagerato vi è in questa avversione all’illuminismo che tanto coraggioso era nella sua teoria e nella sua ansia di costruzione, ma qui si vuole appunto delimitare la posizione alfieriana ad uno spunto violento o non sufficientemente organizzato e indirizzato a forme concrete che di quel passato vicino avrebbe dovuto tenere conto o superarlo con altre categorie realizzative. L’Alfieri e il romanticismo italiano risentono di questa loro natura scarsamente speculativa, dei loro limitati interessi. Se istintivo era per lui il «forte sentire», non altrettanto chiaro era il «vero» di cui tanto spesso parla: «Da questo commercio di reciproca dissimulazione (tra principi e letterati) il pubblico intanto ne rimane sempre piú cieco e ingannato; e sempre piú allontanato dal forte sentire e dal vero che sono i soli fonti d’ogni alto operare». E l’incertezza delle conseguenze alfieriane va ricercata anche nell’antistoricismo che gli faceva ricercare in Machiavelli, pur intuito nella sua grandezza, un bizzarro doppio senso del Principe o lo portava all’avvicinamento della terminologia in antitesi quando parlava della «forza primitiva dei lumi» degli antichi liberi scrittori. Era ad ogni modo la strada per il romanticismo italiano che avrà bisogno di una nuova nascita di imitazione di teorie straniere che non in tutto potevano confluire con i presentimenti alfieriani.

Per vedere chiaramente come l’Alfieri porti intuizioni di una idea totalmente nuova della vita e della creazione, oltre che per accennare alla coesistenza che anche in lui permane di elementi illuministici e romantici, basterà ricordare che in una satira si espresse a proposito dei delitti passionali (vendetta, punto d’onore ecc.) in Italia con violenta disapprovazione, criticando che si prendessero troppo alla leggera e ritenendoli come indegni di un paese civile: linguaggio di riformatore illuministico avviato ad un progresso di società e avverso ad ogni forma di istintiva barbarie (Satira V: contro il diritto di asilo delle chiese nei casi di omicidio in rissa:

mostruosa cosí, qual piú, qual meno,

ogni gente d’Italia usi raccozza

fero vigliacchi entro al suo seno).

Invece nella famosa pagina del Principe e delle lettere a proposito dell’Italia parla di «delitti generosi» che indicavano come l’Italia possieda in sé la possibilità di risorgere, di farsi grande, di essere nazione. Quei «delitti generosi» valgono tutto un trattato sull’importanza del sentimento nei confronti della ragione e dicono che l’Alfieri avviava una valutazione nuova della vita e dell’uomo, della società e della poesia; anche se egli teoricamente non andò piú in là di quelle luminose intuizioni. Sono parole che fanno pensare non al romanticismo languido, all’Italia di Lamartine, ma a Stendhal innamorato dell’Italia, paese di sangue e di sentimento, viva di un’energia che sembrava mancare alle società piú mediamente civilizzate. Ad un amore che rivelava un ideale tipo d’uomo estremo nell’amore e nell’odio, ricco di senso e di sentimento piú che di ragione a illuminare i suoi atti.

Aveva nuovo il valore dell’uomo piú nella sua capacità istintiva e ancora indeterminata che nei risultati di una educazione razionale, in vista di una morale di società. Uomo per l’Alfieri indica prima di tutto una forza di vita, una potenza sanguigna al bene e al male, violenta, spregiudicata, senza addomesticamenti iniziali. Mentre il Parini pensava un cittadino equilibrato, fornito di rare virtú, di interessi alla vita della civitas, l’Alfieri passava oltre e creava l’uomo, la radice di ogni bene e di ogni male che diventava un male buono purché intensamente umano. Al risultato illuministico di umanità, come spirito di socialità, di filantropismo, egli opponeva (e poteva costituire il punto di partenza per una nuova sintesi) l’intuizione, l’esigenza di una umanità come vigore primitivo precedente ad ogni giustificazione funzionale. Era la «pianta uomo» che egli cercava e sentiva là ove comunemente si considerava l’uomo civile, l’uomo illuminato. Mentre prima gli uomini venivano a distinguersi in colti ed incolti, in coscienti del progresso di perfettibilità e di ignoranti suscettibili però di educazione e quindi di elevazione al primo ordine, per l’Alfieri gli uomini veri si pongono sotto la luce dell’energia, dell’entusiasmo, dell’attività amata con ardore, della passione che non considera ostacoli. Da una parte gli uomini veri, dall’altra i «babbuini», come dice in una lettera all’Albergati nel ’92: «Spero che se mai viene il giorno che gli Italiani si sveglino e sorgano, ei si comporteranno da uomini, come altre volte si sono mostrati, e non da vili bambini, o per meglio dire dei babbuini come costoro». E ancora parlando sempre della Francia, che gli veniva apparendo quel regno della mentalità di sufficienza da lui odiata nell’illuminismo, «il contrario è l’Italia, anche nelle sue divisioncelle, dove per tutto c’è uomini, ma non hanno paese che li contenga». Uomini veri, questa è la sua continua richiesta, tale è l’espressione del suo bisogno di concreto, di fronte all’astrattezza di una cultura che gli appariva logorata da una pratica di società e dal ridicolo delle applicazioni.

Cosí, di fronte alla tendenza illuministica di universalismo, di cosmopolitismo, che trovava espressione nella tolleranza di religione e di razza (la leggenda dei tre anelli di Lessing nel Nathan der Weise), prende nascita nell’Alfieri quel gusto di caratterizzare le varie nazionalità proprio dalla fisionomia fisica, dalla diversità dei volti, dal linguaggio, da ogni espressione. Nasceva cosí il sentimento di nazione non su motivi retorici né su motivi di funzione europea come nel grande romanticismo vorranno Mazzini e lo stesso Fichte, ma su di una coscienza istintiva e primaria per lui come la coscienza della personalità. E anche qui vediamo il valore dell’Alfieri non tanto negli svolgimenti di questa prima intuizione, deviati da tanti diversi sentimenti, interessi, riflessi culturali contrastanti, ma proprio nella prima affermazione, nel sentimento di nazione che non richiede una dimostrazione. Il romanticismo poi sviluppando quella intuizione la arricchirà di ragioni, la renderà articolata, capace di dar vita a sistemi ideali che di tanto la sorpassano, ma la prima forza è lí in quel primo slancio alfieriano, in quel suo piglio perentorio e appassionato che danno all’amore di nazione un carattere di barbarica religiosità. Cosí che all’inizio dell’800 dei patrioti come l’Ornato potevano scrivere: «Io ho celebrato agli 8 di questo mese l’anniversario del nostro padre Alfieri. Ho radunato quanto ho potuto di sonetti d’occasione, per messe, per nozze, e ne ho fatto un olocausto odoroso ardendoli tutti davanti all’immagine di quel santo. Ho quindi fatto una corona di alloro e di cipresso intrecciati e l’ho appesa davanti all’immagine di lui», quasi riferendosi ad una liturgia che non sarebbe nata senza di lui.

Questo senso del concreto non razionale si complicava in lui con una formazione tutta sensistica che da un lato lo confermava nella sua diffidenza verso ogni vago spiritualismo e dall’altro lo portava a ribellarsi a questa schiavitú riconosciuta dei sensi.

Lentamente a questo sentire di origine condillachiana si sostituiva un sentire nuovo, il sentire del cuore, dell’entusiasmo che sempre piú in lui diventava la misura vera di ogni cosa.

Scrivendo ad una signora senese il cui amante era morto, l’A. dice di credere quasi alla immortalità dell’anima perché «alcune opinioni sono piú utili a soddisfare il cuore ben fatto che altre... Viva dunque l’ignoranza e la poesia per quanto elle possono stare insieme: imaginiamo e crediamo l’imaginato per vero: l’uomo vive d’amore, l’amore lo fa Dio; ché Dio chiamo io l’uomo vivissimamente sentente e cani chiamo, o francesi che è lo stesso, i gelati filosofanti».

C’è dunque una cieca opposizione del sentimento alla ragione e alla verità dei sensi, c’è l’intuizione che la verità spirituale non dipende dai fatti, anche se in lui si resta tra la negazione di una realtà creduta geometricamente evidente, e lo sforzo di colmare quella impossibilità con la passione e la certezza sentimentale che non chiede conferme.

Cosí, nel passaggio tra illuminismo e romanticismo di cui egli riproduce il tipico sfasamento, l’Alfieri porta non i presentimenti ombrosi preromantici o le affermazioni dottrinali dei letterati nuovi, ma uno scontento fondamentale della vecchia mentalità; non una melanconia tiepida e gustata, ma un senso tragico che metteva in agonia le anime incerte fra problemismo temperato e irrequietezze morbose.